Muoversi 3 2022
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PERCHÉ NON BASTANO LE BUONE INTENZIONI  

PERCHÉ NON BASTANO LE BUONE INTENZIONI

di Salvatore Carollo

Salvatore Carollo

Energy and
Oil&Gas trader
and analyst

L’approvazione da parte del Parlamento europeo della proposta di fermare definitivamente i motori a combustione interna a partire dal 2035 appare dettata da una visione semplicistica che assume che per legge si possa imporre l’evoluzione che più desideriamo al processo tecnologico ed industriale, senza verificare tutte le implicazioni ed i costi connessi.

Nella storia recente c’è un precedente simile ovvero la decisione presa dal Congresso americano sulla spinta ambientalista dei movimenti nati successivamente all’incidente di Chernobyl del 1986.

Dopo anni di battaglie e manifestazioni, finalmente nel 1982, il Congresso a maggioranza democratica approvò il Clean Air Act, una legge che imponeva la rivoluzione della tecnologia di produzione dei combustibili per i trasporti, intervenendo nella loro composizione molecolare.

Un minuto dopo il voto, gli americani scoprirono che l’industria americana della raffinazione non aveva impianti in grado di produrre combustibili con queste caratteristiche.

Il problema si conosceva, ma nessuno voleva dirlo. Si decise di scaricare il problema sulla spalle dell’Opec cui si cominciò a chiedere di produrre più petrolio. L'Opec aumentò la produzione ben 7 volte in 4 mesi e ad ogni aumento corrispondeva un aumento del prezzo. Il Brent passò dai 9 dollari/barile di gennaio ai 40 di aprile. Non mancava il greggio, ma la benzina riformata in linea con le nuove leggi

Per rispondere alle richieste poste dalla nuova legge, si sarebbero dovuti effettuare investimenti massici che, nel nuovo contesto del mercato internazionale di margini bassi, nessuno era disposto ad affrontare. Nulla fu fatto per incentivare i raffinatori ad investire nelle tecnologie (costosissime) che avrebbero dovuto innovare tutto il processo produttivo.

Iniziò così un processo di ripetuti rinvii della sua entrata in vigore fino al 1999, quando durante la campagna presidenziale Gore-Bush, Clinton per garantire i voti “verdi” a Gore, impose l’attuazione della legge a partire dal 1° gennaio 2000.

I primi mesi del 2000 furono tragici per la nuova amministrazione Bush, con stazioni di servizio senza benzina e prezzi alle stelle (dallo storico 1 dollaro/gallone a 4 dollari/gallone).

Il problema si conosceva, ma nessuno voleva dirlo. Si decise di scaricarlo sulle spalle dell’Opec cui si cominciò a chiedere di produrre più petrolio. L’Opec aumentò la produzione ben 7 volte in 4 mesi e ad ogni aumento corrispondeva un aumento del prezzo. Il Brent passò dai 9 dollari/barile di gennaio ai 40 di aprile.

Non mancava il greggio, ma la benzina riformata in linea con le nuove leggi.

Il problema non è mai stato risolto. Le Majors hanno progressivamente abbandonato il settore della raffinazione e l’America da allora è rimasta in una situazione precaria. Vanno avanti importando componenti ottanici dal Venezuela e dall’Europa.

Ad ogni uragano che blocca le poche raffinerie in grado di produrre le benzine a norma, l’Amministrazione è costretta a sospendere le norme ambientali e consentire la vendita di benzina “tradizionale” più inquinante come ai vecchi tempi. Da 20 anni, nonostante quello che si fa credere su certa stampa, gli USA sono assolutamente fragili in campo energetico e soprattutto nel settore ancora decisivo degli idrocarburi.

Solo il 30% delle benzine prodotte dal sistema di raffinazione americano sono in linea con le specifiche di legge. Il resto deve essere mescolato con i componenti importati. Il che vuol dire che anche il resto del mondo paga il conto di questa legge. Per avere i componenti ottanici gli americani pagano prezzi altissimi sottraendoli agli altri Paesi. Ovviamente, le benzine prodotte che non riescono ad essere blendate con i componenti importati devono essere esportate verso i paesi che hanno leggi più permissive (Africa e Medio Oriente). Questo fatto viene raccontato come se gli Stati Uniti fossero diventati esportatori netti di petrolio e prodotti petroliferi.

Una grande vittoria verde ambientalista che ha distrutto l’equilibrio del mercato energetico americano ed europeo, a danno dei paesi più fragili del Sud America sopratutto.

Fu il primo clamoroso episodio di gestione della transizione energetica sviluppato senza rispetto della neutralità tecnologica.

Per favorire gli investimenti occorre un clima di fiducia e di certezza di lungo periodo, che manca agli operatori ormai da oltre un decennio e che le recenti decisioni del Parlamento hanno ulteriormente distrutto. Rischiamo di essere travolti da una crisi di approvvigionamento mentre ci illudiamo di essere già fuori dalle fonti fossili.

Un errore che grava ancora sul sistema energetico americano e di cui pagano le conseguenze i paesi più poveri, per i quali i miglioramenti ambientali si sono allontanati dai loro orizzonti per decenni e forse per sempre. Eppure, solo ora dopo 20 anni, Biden finalmente ammette che esiste un problema, anche se tenta di scaricarlo in parte sulle compagnie petrolifere ed in parte sui paesi Opec. Non si riesce ad ammettere che le decisioni del 1982 e del 1999, anche se ispirate da buone intenzioni, furono completamente sbagliate nei tempi e nella gestione del processo di attuazione.

Cambiare i processi industriali e le tecnologie di produzione costa e richiede interventi complessi di cambiamenti infrastrutturali.

L’errore commesso dal Parlamento europeo nel 2022 si può assimilare a quello del Congresso americano nel 1982.

Un voto che esprime soltanto un desiderio senza accompagnarlo ad alcuna analisi seria della complessità della materia, scegliendo in modo pregiudiziale una soluzione tecnologica (l’elettrico) senza considerare tutte le altre tecnologie su cui si sta studiando e sperimentando e che, forse, potrebbero rivelarsi più consone ed adattabili alla struttura urbanistica delle nostre città.

Si è invece inflitto un colpo secco ad una delle industrie europee che gode ancora di un primato tecnologico di grande prestigio. Le spinte ideologiche determineranno il tramonto di questo settore aumentando la nostra dipendenza dalla Cina. Davvero un grande risultato.

Veramente sorprendente è il commento di alcuni analisti che, dando per scontata una presunta ferma volontà dell’industria automobilistica tedesca di passare all’elettrico, invitano l’Italia a rassegnarsi e muoversi nella stessa direzione. Al danno si aggiunge la beffa. Eppure ci sono studi ed analisi che mostrano l’esistenza di percorsi tecnologici che potrebbero produrre gli stessi benefici ambientali mantenendo il patrimonio industriale oggi esistente.

Rimane da capire come si consentirà agli abitanti dei quartieri popolari che vivono nell’ammasso di palazzoni multipiani, dove la notte le auto sono accatastate alla meno peggio, di acquistare un auto elettrica e di ricaricare le batterie. Lanceranno dei cavi dalle finestre fino a raggiungere la propria vettura parcheggiata chi sa dove?

Dietro questa decisione, si intravvede inoltre una limitatissima conoscenza del mondo dell’energia nella sua globalità, una scarsa consapevolezza dei cambiamenti strutturali del mercato petrolifero che sta mettendo a fuoco la fragilità del sistema europeo.

Il crollo virtuale del prezzo del WTI a -37 €/bbl avvenuto nella borsa di New York il 20 aprile 2020, è stato vissuto come il segno della fine di un’era.

La vigorosa successiva ripresa dei prezzi è suonata come una sorpresa fastidiosa ed incomprensibile. Ancora in piena pandemia, la domanda di prodotti petroliferi è tornata a salire in modo inarrestabile ed il prezzo del greggio si è portato decisamente al di sopra dei 100 dollari/barile. Il mondo richiede il petrolio e lo richiederà ancora per decenni, che piaccia o no.

La guerra in Ucraina ha solo sigillato ed amplificato una crisi che viene da lontano anche se non rientra negli schemi interpretativi di tanti analisti energetici, cui sfugge la complessità tecnologica del petrolio e la sua dimensione globalizzata.

Può sembrare banale ricordarlo, ma il petrolio è solo una materia prima che non viene usata in quanto tale. Usiamo i prodotti petroliferi (benzina, gasolio, jet fuel, olio combustibile, nafta, lubrificanti, ecc.) che sono ottenuti attraverso la lavorazione del petrolio greggio negli impianti di raffinazione.

Da tempo gli investimenti del settore upstream per la ricerca e lo sviluppo di idrocarburi sono stati ridotti. Le grandi banche e fondi finanziari, per tener conto della pressione esercitata dai movimenti ambientalisti, hanno declassato gli investimenti upstream fra quelli rischiosi e incerti nel lungo tempo. Le compagnie petrolifere hanno quindi rallentato le attività upstream, causando una riduzione visibile della produzione mondiale di idrocarburi. La ripresa della domanda si è incontrata con una minore offerta potenziale, spingendo il livello dei prezzi del greggio, dopo tanti anni, ben al di sopra dei 100 dollari/barile.

Oggi, la ridotta offerta di prodotti finiti a causa della ridotta capacità di raffinazione efficiente disponibile, a fronte della forte ripresa della domanda, sta spingendo il prezzo dei prodotti finiti a livelli mai visti nel passato decennio. Dopo tanti anni di margini negativi o vicini al break even, i margini di raffinazione sono migliorati, ma non al livello tale da incentivare quegli investimenti strutturali che occorrerebbero. Per favorire gli investimenti occorre un clima di fiducia e di certezza di lungo periodo, che manca agli operatori ormai da oltre un decennio e che le recenti decisioni del Parlamento hanno ulteriormente distrutto.

Rischiamo di essere travolti da una crisi di approvvigionamento mentre ci illudiamo di essere già fuori dalle fonti fossili.

Tutto questo per sottolineare che l’Europa sembra muoversi all’interno di una visione quasi ideologica che prescinde da quanto sta avvenendo nel resto del mondo. Speriamo che un ripensamento sia possibile prima che il danno diventi irreversibile.