Muoversi 2 2023
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FATTORI ESG: VISIONI DOGMATICHE POSSONO ALLONTANARE LE SOLUZIONI OTTIMALI

FATTORI ESG: VISIONI DOGMATICHE POSSONO ALLONTANARE LE SOLUZIONI OTTIMALI

di Monica Billio

di Monica Billio

Professoressa di Econometria, Dipartimento di Economia, Università Ca’ Foscari Venezia

L’acronimo ESG sintetizza le tre dimensioni della sostenibilità: quella ambientale, sociale e di buon governo, in inglese Environmental, Social e Governance. È ora sempre più noto, anche al di fuori del mondo della finanza, per verificare, misurare, controllare e sostenere (con acquisto di prodotti o con scelte di investimento) l’impegno in termini di sostenibilità di una impresa ma anche di una Organizzazione.

Il come misurare e verificare chiede non solo l’individuazione dei fattori rilevanti per le tre dimensioni, ma soprattutto chiede la valutazione della loro materialità, cioè dell’impatto sull’attività aziendale (business), sulle performance finanziarie e sulla valutazione da parte degli stakeholders (aspetti reputazionali)

Il come misurare e verificare chiede non solo l’individuazione dei fattori rilevanti per le tre dimensioni, ma soprattutto chiede la valutazione della loro materialità, cioè dell’impatto sull’attività aziendale (business), sulle performance finanziarie e sulla valutazione da parte degli stakeholders (aspetti reputazionali). Questo passaggio è fondamentale per comprendere come i fattori ESG influenzino le scelte di investimento e quindi possano indirizzare fondi e capitali.
La definizione degli standard di valutazione è ancora in corso e bisogna accelerare, ma le scelte normative e regolamentari, quali la tassonomia verde e le richieste dei regolatori di mercato, danno già indicazioni che si traducono in valutazioni degli impatti di materialità.
Entrando più nello specifico, ad esempio della dimensione ambientale, dove norme e indicazioni regolamentari già ci sono, possiamo comprenderne la materialità distinguendo tra rischio fisico e rischio transizione, dove il primo rappresenta l’esposizione a rischi ambientali che possono andare aggravandosi a causa del cambiamento climatico, mentre il secondo è connesso alle modalità di passaggio verso un’economia a basse emissioni di carbonio, che dipende dal progresso tecnologico ma anche dalla definizione di politiche attive da parte dei Governi, quindi da scelte politiche (oltre che dalle scelte dei consumatori).
Entrambi sono legati a indicatori quali le emissioni di gas climalteranti, che costituiscono infatti i principali KPI del pillar E, ma il rischio transizione ha una componente rilevante legata alle scelte politiche e di consumo le cui dinamiche possono non sempre essere ben allineate alle soluzioni migliori di riduzione delle emissioni. Il rischio di transizione, inoltre, può avere un orizzonte più breve del rischio fisico (o dell’accresciuto rischio fisico) che può renderlo quindi prevalente nelle scelte della finanza e degli investitori.
Entrando ancor più nel merito della questione, ci sono alcune situazioni emblematiche legate al rischio transizione.

Oggi scelte politiche spingono per l’elettrificazione dei veicoli in presenza di una tecnologia non ancora vincente in tutte le sue forme, con conseguenze che possono addirittura portare a valorizzare soluzioni non vantaggiose per l’ambiente. Nell’uso sulle lunghe distanze, ad esempio concreto, l’impiego di un’auto con sistema ibrido plug-in a benzina risulta essere più impattante di quello di un’auto alimentata con motore a gasolio. Da una inchiesta che stiamo svolgendo sulle flotte di alcune multinazionali che hanno cambiato le vetture a gasolio con quelle plug-in a benzina, sta infatti emergendo che il 70% degli utilizzatori si lamenta di un consumo di carburante sensibilmente più elevato e di conseguenza con maggiori emissioni. Questo tema sta emergendo solo ora, sollevando anche la questione greenwashing e di adeguata trasparenza, ed evidenzia come vi sia necessità di un approccio più attento, che consideri lo stato dell’arte attuale e in divenire, sia nel breve che nel medio periodo, per non favorire soluzioni non ottimali.
Altri esempi si possono trovare per gli investimenti nel gas, nel petrolio e nel nucleare in quanto ci vuole molto più tempo di quello che erroneamente si pensa per la conversione e questo costituisce un problema.
Le ultime stime disponibili da parte sia dell’IPCC (Panel Intergovernativo per il Cambiamento Climatico) sia da nostri studi del Dipartimento di Economia di Ca’ Foscari, come quelli di McKinsey, indicano che gli investimenti necessari per la transizione climatica non saranno inferiori ai 3.000 miliardi di dollari annui con orizzonte al 2050. L’impegno del finanziamento pubblico potrà arrivare forse ad un terzo e c’è quindi un gap annuo di oltre 2.000 miliardi di dollari che necessariamente chiama a una mobilitazione importante di capitale privato verso investimenti sostenibili. E per questo avere metriche ESG ben congeniate permetterebbe a tutti di ridurre il rischio e valorizzare gli investimenti.

La corretta valutazione del rischio transizione è strettamente legata anche alla necessità di una transizione ordinata, che chiede un bilanciamento tra l’implementazione di attività a bassa emissione e il rallentamento di quelle ad alta emissione, possibilmente prevedendo misure di resilienza e ridondanza adeguate per evitare problemi di sicurezza energetica

La corretta valutazione del rischio transizione è strettamente legata anche alla necessità di una transizione ordinata, che chiede un bilanciamento tra l’implementazione di attività a bassa emissione e il rallentamento di quelle ad alta emissione, possibilmente prevedendo misure di resilienza e ridondanza adeguate per evitare problemi di sicurezza energetica così come di ordine sociale (concetto di transizione giusta per le implicazioni su lavoratori e territori maggiormente coinvolti/colpiti dalla transizione climatica). Questa valutazione non deve quindi basarsi sulla situazione attuale, che implicherebbe uno screening negativo (e quindi nessun investimento nelle attività ad alta emissione), ma deve avere capacità forward looking, valutando il potenziale e la volontà di transizione verso tecnologie e processi a minori emissioni. Gli indicatori da includersi quindi nella valutazione non devono fotografare solo lo status quo, ma prendere in carico anche informazioni e valutazioni che guardino avanti e che dovrebbero essere incluse nei piani di transizione, per permettere agli investitori di allocare capitali nelle direzioni utili.
Non bisogna poi sottovalutare l’aspetto geopolitico, perché in questo ultimo ventennio con la crescita esponenziale della Cina e quella prossima dell’India, il tema delle risorse disponibili per tutti come le abbiamo conosciute fino ad ora sarà ancora più rilevante.
Concludendo, dei passi importanti sono stati fatti e si stanno facendo ma altrettanti ne mancano. Ci vuole da parte di tutti una visione più attenta ma anche meno dogmatica a prescindere.

Con il contributo di Marco Marelli,
journalist expert in mobility,
sustainability and economics.