Muoversi 3 2023
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LA FINANZIARIZZAZIONE DEI MERCATI ENERGETICI CI È UTILE?

LA FINANZIARIZZAZIONE DEI MERCATI ENERGETICI CI È UTILE?

di Salvatore Carollo

La terza puntata de “L’energia spiegata”, curata da Salvatore Carollo si concentra sulla progressiva e incessante finanziarizzazione dei mercati. La conclusione è che la tutela degli interessi economici del sistema industriale occidentale non può basarsi solo sui meccanismi di protezione finanziaria. Una lezione che avremmo dovuto imparare nel 2007.

Salvatore Carollo

Oil and Energy Analist e Trader

L’uso dell’energia è da sempre legato alla capacità dell’uomo di governare le tecnologie. L’uso intenso dell’energia comincia nell’Europa a partire dal 1600, prima in Olanda con i mulini a vento e poi con l’inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra che avvia l’uso del carbone per dare energia alle macchine a vapore. Da quel momento parte il binomio fra produzione di energia e controllo delle fonti per produrla. I paesi che dispongono di fonti energetiche, o che sono in grado di approvvigionarsene a basso costo, assumono la guida dello sviluppo economico e la leadership politica del mondo. Il Regno Unito riesce a creare un impero immenso e a governarlo per molti decenni, influenzando gli sviluppi del pianeta per qualche secolo. Gli Stati Uniti si presentano sulla scena mondiale, uscendo dall’isolamento territoriale, quando scoprono di galleggiare sul petrolio e cominciano a produrlo diventando il primo paese produttore al mondo.

L’esplosione del conflitto arabo-israeliano agli inizi degli anni ’70, sembra mettere in discussione l’equilibrio mondiale intorno al sistema di approvvigionamenti petroliferi. Per la prima volta i paesi produttori del Golfo usano il petrolio come arma politica contro Israele ed alzano il prezzo da 1/2 dollari al barile fino a 14/15 dollari. È la fine di un’epoca

È una svolta enorme. Energia a basso costo che permette una industrializzazione massiccia, la creazione di una rete di trasporti e la libertà di movimento per tutti con l’automobile (che sostituisce il cavallo).
Stati Uniti e Regno Unito, vincitori delle due guerre mondiali, iniziano lo sfruttamento massiccio delle riserve petrolifere del Golfo Persico per disporre di quantità enormi di petrolio che continueranno a dare loro un vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi industrializzati.
Ovviamente, si avvia un processo che porterà alla creazione di Stati, favorendo l’aggregazione di tribù nomadi del deserto ed esercitando una leadership forte nei loro confronti.
Quando le scoperte di idrocarburi cominciano ad interessare paesi con forte identità storica come Iran ed Iraq, il meccanismo di leadership diventa più complesso ed a volte inefficace.
In tutta questa fase storica il prezzo del petrolio, a livello mondiale, rimane intorno a 1 dollaro/barile e costituisce la più vantaggiosa fonte di energia per l’economia occidentale. Lentamente, anche il carbone cede il passo al petrolio. L’esplosione del conflitto arabo-israeliano agli inizi degli anni ’70 sembra mettere in discussione l’equilibrio mondiale intorno al sistema di approvvigionamenti petroliferi.
Per la prima volta i paesi produttori del Golfo usano il petrolio come arma politica contro Israele ed alzano il prezzo da 1-2 $/barile fino a 14-15 $/bbl.
È la fine di un’era. Occorre reagire e porre rimedio ad un danno quasi irreparabile.
Si dà il via ad un massiccio piano di investimenti nella costruzione di impianti di energia nucleare. La Francia coglie la palla al balzo per conquistare una leadership in campo energetico ed industriale, da sempre minacciata dal Regno Unito, e avvia la costruzione di quasi 60 reattori nucleari puntando a coprire con questi oltre il 70% del loro fabbisogno energetico.
Inizia pure la ricerca di idrocarburi al di fuori del Golfo Persico, con risultati molto positivi specialmente in West Africa e nel Mare del Nord. E qui si apre uno spazio nuovo per compagnie petrolifere europee escluse di fatto dalle attività in Golfo Persico, monopolio di USA e UK.
Tuttavia, il conflitto aperto dai paesi del Golfo contro Israele ed i suoi sostenitori finisce per trasformarsi in una guerra per il controllo del prezzo del petrolio e del mercato petrolifero. Una guerra la cui portata sfugge ai più all’inizio.
L’OPEC, guidata dallo sceicco Yamani, lancia nel 1985 la cosiddetta “guerra dei prezzi”, rivendicando una leadership messa in discussione dai nuovi paesi produttori del Mare del Nord e americani.

La guerra produce il crollo del prezzo del petrolio al di sotto del livello minimo indispensabile per rendere conveniente la produzione in una serie di aree come il Mare del Nord, West Africa (produzioni offshore) e nelle aree marginali degli USA (strippers ed offshore).
Si produce un disastro economico e finanziario. Il mercato finanziario di Londra viene scosso profondamente.
Dapprima si tenta di ricucire lo strappo con l’OPEC. Yamani, lo stratega della guerra dei prezzi, viene allontanato e l’OPEC si impegna in un’opera di dialogo e ricucitura dei rapporti.
Quando sembrava che un accordo fosse stato trovato, si è verificata la svolta storica voluta da Mrs. Thatcher: la creazione del mercato finanziario del petrolio. Un’operazione nata in sordina e capita solo da pochi addetti ai lavori, ma destinata a ribaltare gli equilibri dei mercati petroliferi per i successivi decenni.
Con due successivi interventi, il primo del luglio 1986 con la creazione del Contratto “forward” del Brent (15 days Brent Contract) ed il secondo con quello puramente finanziario dell’IPE Brent (International Petroleum Exchange), ogni dialogo con l’OPEC viene definitivamente bloccato e si trasforma il sistema del Brent (con la sua complessa architettura) nel nuovo benchmark mondiale del petrolio.
Lentamente e progressivamente, tutti i paesi produttori e consumatori (raffinatori e traders) si allineano al nuovo sistema ed usano il Brent per fissare il prezzo del petrolio.
Dove sta la rivoluzione? In fondo prima il prezzo del petrolio veniva fissato con riferimento a quello del greggio Arabian Light prodotto dai sauditi ed ora con riferimento al Brent greggio prodotto nel Mare del Nord. Le dinamiche della domanda ed offerta del petrolio rimanevano invariate, con l’OPEC che continua ad essere ancora il maggior fornitore dei mercati petroliferi.

La chiave di volta del nuovo sistema dei prezzi
Una volta quotato nella borsa di Londra, il valore del Brent IPE è diventato il principale oggetto degli scambi giornalieri fino a raggiungere il livello di 3.000 miliardi di dollari (al giorno). Una cosa mai verificatasi prima nella storia dei mercati finanziari mondiali.
Gli operatori di borsa hanno potuto disporre di uno strumento di liquidità “infinito” che permetteva loro di muovere liberamente nel giro di ore/minuti enormi masse finanziarie da una commodity all’altra, di entrare ed uscire dal mercato (finanziario) del petrolio diverse volte nel corso della giornata.
Ogni tensione o speculazione innescata su una qualsiasi commodity nel mondo poteva essere compensata con movimenti di segno opposto nel mercato petrolifero. Il prezzo del Brent, ovvero di quella entità che era diventata il benchmark del petrolio nel mondo, oscillava non già perché si era modificato l’equilibrio fra domanda ed offerta o si era creata un’aspettativa di corto o lungo dell’offerta o della domanda, ma solo perché gli operatori di borsa stavano fuggendo dal mercato delle valute o dell’oro.
Capito questo, è stato immediato il capovolgimento del fenomeno, ovvero gestire i flussi finanziari nella borsa di Londra in modo da determinare variazioni tali del prezzo del petrolio che consentissero di creare le condizioni favorevoli per la remunerazione delle operazioni fatte nel complesso delle attività finanziarie in borsa.
Non più quindi il prezzo del petrolio come variabile che influenza il costo dell’energia, fortemente sotto il controllo dei paesi dell’OPEC, ma una variabile del mercato finanziario in mano ai gestori della finanza mondiale e parte del meccanismo di globalizzazione della finanza mondiale.
Apparentemente, i paesi produttori controllano i processi di produzione, ma solo in qualche misura. Infatti, senza i finanziamenti che provengono proprio dai gestori della finanza mondiale non sono in grado di garantire la continuità e lo sviluppo delle produzioni e quindi le loro entrate presenti e future. E quindi, sono totalmente esclusi dai processi di definizione del prezzo del petrolio.
D’altronde, quando nel dicembre 1988 i paesi OPEC accettarono di abbandonare l’Arabian light e di usare il Brent come loro benchmark per fissare il prezzo del loro petrolio, si sono consegnati mani e piedi alla finanza mondiale ed ai gestori del sistema del Brent.
Di recente, con la creazione dell’OPEC Plus, i paesi produttori stanno tentando di riprendere in mano parte del potere perduto, ma non si tratta di un’operazione semplice e di facile successo.

Ogni cambiamento possibile in futuro dovrà sempre avvenire dentro le dinamiche dei mondi finanziari. Di recente la combinazione fra tensioni antiche ed alcune dinamiche innestate dalle sanzioni sul petrolio russo, sembrano accelerare le spinte ad allontanarsi dal Brent (e forse dal dollaro) rivolgendosi verso altri benchmark come i greggi di Dubai o Abu Dhabi. Per il momento si è trattato di un campanello di allarme per la borsa di Londra

Ormai il legame diretto fra prezzo e dinamica domanda/offerta non è più quello di causa-effetto.
Il ruolo della finanza nella definizione del prezzo del petrolio è irreversibile e globalizzato.
Ogni cambiamento possibile in futuro dovrà sempre avvenire dentro le dinamiche dei mondi finanziari. Di recente, la combinazione fra tensioni antiche ed alcune dinamiche innestate dalle sanzioni europee sul petrolio russo, sembrano accelerare le spinte ad allontanarsi dal Brent (e forse dal dollaro) rivolgendosi verso altri benchmark anch’essi finaziarizzati (come i greggi Dubai o Abu Dhabi) già quotati nelle borse mediorientali. Per il momento si è trattato di un campanello di allarme per la borsa di Londra. Vedremo gli sviluppi nei prossimi anni.

La finanziarizzazione del prezzo del petrolio è stata positiva ed utile all’economia mondiale?
Cominciamo col dire che il prezzo del petrolio a metà degli anni ’80 era fisso a 34 dollari/barile e gravava in modo notevole sull’economia dei paesi industrializzati. Non solo, la trasformazione del prezzo del petrolio in arma politica come si era delineato a partire dal 1973, rendeva molto incerto ed imprevedibile lo sviluppo di questa variabile per i decenni successivi.
La finanziarizzazione del prezzo del petrolio lo ha allineato alla dinamica degli atri fattori dello sviluppo mondiali affidando ai mercati finanziari il ruolo di regolatore degli equilibri complessivi.
In questo contesto, dalla fine degli anni ’80 fino all’inizio del 2000, il prezzo del petrolio si è sostanzialmente mantenuto intorno ai 20 dollari/barile, garantendo ai paesi industrializzati energia a basso costo, come non era più successo dal 1973 in poi.
Il prezzo ha poi ripreso la sua corsa al rialzo essenzialmente per due ragioni strutturali:

l’inasprimento della legislazione ambientale ha reso obsoleta la struttura di raffinazione esistente creando quindi una crescente difficoltà nel processo di trasformazione della materia prima (petrolio greggio) nei prodotti fini di alta qualità necessari ai mercati occidentali. Il rialzo dei prezzi dei prodotti finiti (benzina, gasolio, jet fuel) ha trascinato in alto il prezzo del petrolio;

la grande euforia della finanza a livello mondiale ha determinato la perdita di controllo dei processi di governo del sistema creando le premesse per la grande crisi finanziaria del 2007. Insieme al crollo dei titoli finanziari è avvenuto anche il tracollo del prezzo del petrolio, ormai parte integrante del sistema finanziario mondiale.

Avremmo dovuto imparare da questa lezione severissima del 2007 e capire che la tutela degli interessi economici del sistema industriale occidentale non poteva basarsi esclusivamente sui meccanismi di protezione finanziaria. Occorreva mettere mano ad investimenti importanti nel settore industriale della raffinazione per garantire la produzione costante di prodotti finiti sempre più rispettosi delle norme ambientali. Le nuove tecnologie consentono di guardare avanti in modo positivo, ma bisogna reagire con tempestività, senza sperare di cavarsela con espediente dell’ultima ora.
Purtroppo, l’Europa sembra essersi intrappolata in una visione ideologica quasi mistico-religiosa della transizione energetica e rischia di gettare via anche il bambino insieme all’acqua sporca. È d’obbligo qui una riflessione sul mercato del gas e sulla spaventosa speculazione sui prezzi avvenuta a fine 2021/inizio 2022 che ha riversato dei costi altissimi su tanti paesi europei, l’Italia in particolare.
Cominciamo col dire che in Europa non c’è un mercato del gas degno di questo nome. La quasi totalità del gas, prima del 2022, andava dal produttore al consumatore attraverso una rete di distribuzione fissa costruita nei decenni passati ed alimentata con i flussi provenienti dai paesi produttori sulla base di contratti di lungo termine dove il prezzo è fissato, una volta per tutte, con delle formule di prezzo non modificabili. Non c’è quindi alcuna negoziazione del prezzo legata alle varie forniture e non c’è quindi alcun mercato “spot” del gas, in cui il prezzo del giorno scaturisce dalla dinamica domanda/offerta.
Avendo visto il successo della borsa di Londra sul prezzo del petrolio, anche la borsa di Amsterdam ha voluto tentare di costruire un modello di finanziarizzazione del prezzo del gas, “per strappare alla Russia il monopolio del prezzo del gas”.
Era evidente il parallelismo con la battaglia della Thatcher contro l’OPEC, ma in Olanda non c’era nessuna Thatcher.
Si sono quindi inventati un mercato “spot” del gas fatto da volumi fisici assolutamente insignificanti relativi ad alcuni scambi fra la società olandese del gas ed alcuni acquirenti industriali del Belgio e della Renania Westfalia (Germania). I volumi sono talmente irrisori che non vengono resi noti. Un mercato quindi privo di qualsiasi elemento di trasparenza.
Su questo inesistente mercato fisico è stata costruita l’impalcatura di un mercato finanziario scimmiottando le regole del Brent nella borsa di Londra. Con una differenza. A Londra di trattano 3.000 miliardi di dollari al giorno, ad Amsterdam (nel mercatino del gas) soltanto 1-3 miliardi di dollari/giorno, ovvero mille volte meno.
Purtroppo, la cecità e la visione furbesca di breve periodo hanno spinto alcuni operatori europei ed italiani a supportare ed utilizzare la creazione di questo finto mercato finanziario, che giornalmente produce un prezzo chiamato TTF (Title Transfer Facility).
Il sistema creato era talmente privo di qualunque stabilità strutturale da esplodere alla prima crisi di mercato. Appena le prime voci delle tensioni fra Russa ed Ucraina hanno cominciato a diffondersi, senza che ci fosse alcuna variazione nell’offerta di gas all’Europa, il valore del TTF, sotto la spinta dei traders che operano in borsa ad Amsterdam, è passato da 20 a 380 euro/MWh. Un impazzimento che non ha precedenti in nessuna delle crisi energetiche, molto più serie e drammatiche, del passato.
Per fortuna, la UE ha infine deciso di mettere sotto osservazione le dinamiche della borsa di Amsterdam, causando la fuga dei maggiori speculatori.
Indubbiamente, esiste il problema di creare un benchmark del gas in Europa, ma non è una cosa semplice da fare. Bisognerà vedere prima come si uscirà dalla crisi determinata dal conflitto russo-ucraino, come si riequilibreranno i flussi di approvvigionamento e quali sviluppi ci saranno per le produzioni italiane e del Mediterraneo Sud-Orientale.
Una delle soluzioni più auspicabili sarebbe quella della creazione di un “mercato spot” basato sulle produzioni italiane e mediterranee (collegate ai terminali pugliesi e siciliani). Su questo mercato spot potrebbe essere costruito un vero mercato finanziario (nella borsa di Milano).
Per farlo ci vorrebbero anzitutto soggetti imprenditoriali forti e determinati come lo fu la Shell nel Mare del Nord negli anni 1986-88, in grado di dare forma ad un progetto di questa portata e di definire l’architettura di un simile sistema. Ci vorrebbe poi un governo che ci creda e che supporti il progetto con una legislazione finalizzata al suo successo, come fece la Thatcher a suo tempo.
Disponiamo di questi strumenti?
Difficile dirlo. Per ora ci dobbiamo accontentare di sentir parlare di un piano Mattei per l’Africa ancora troppo nebuloso.