Muoversi 1 2021
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TRANSIZIONE ENERGETICA: ILLUDERSI PUÒ ESSERE MOLTO COSTOSO

TRANSIZIONE ENERGETICA:
ILLUDERSI PUÒ ESSERE MOLTO COSTOSO

di Alberto Clô

Alberto Clô

Direttore Energia

Diciamo le cose come stanno. Basandoci sui numeri. Da cui emerge una narrazione diversa da quella oggi dominante: che la transizione energetica sia ormai cosa fatta, mentre avanza la decarbonizzazione dell’energia. Le cose ahimè non stanno così, come emerge da tre dati cruciali, guardando, come si dovrebbe, al contesto mondiale.

Primo: la quota delle fonti fossili sui consumi di energia, è risultata lo scorso anno dell’81%, un punto in più di venti anni fa. Secondo: le fossili hanno contribuito alla generazione elettrica intorno ai due terzi, come venti anni fa. Terzo: l’intensità carbonica dell’energia (CO2 emessa su energia consumata), primo parametro della decarbonizzazione, è diminuita in trenta anni di appena il 3%. Quella dell’elettricità è addirittura aumentata.

Col COVID le cose sono peggiorate perché la crisi sanitaria e la recessione mondiale hanno generato un clima di incertezza, per intensità e durata, e di rischiosità tale da far cancellare o rinviare ogni decisione specie di investimento.

La transizione energetica regge su un pilastro: gli investimenti. Senza non si va da nessuna parte. Quelli nelle rinnovabili – che dovrebbero rimpiazzare le fossili – si sono stabilizzati nel passato biennio per crollare di oltre un terzo nella prima metà di quest’anno.

Non c’è da rallegrarsene. Ho sempre ritenuto che sia profondamente errato mettere in contrapposizione le risorse di energia di cui l’umanità dispone. Perché comune è l’obiettivo cui tendere: soddisfare i fabbisogni dell’umanità intera – nelle quantità e qualità necessarie – minimizzandone per quanto possibile l’impronta carbonica. Petrolio incluso.

Ogni rallentamento rafforza le fonti tradizionali, non essendo dato, come la ricerca sui trasporti ha dimostrato (di cui parliamo da pag. 15), che le tecnologie low-carbon possono sostituirsi a quelle attuali se non in tempi lunghissimi.

Abbandonare il presente per un futuro che non c’è espone l’umanità a rischi insostenibili.

Il crollo della domanda di energia nel 2020 (AIE: -5%) – in Germania sotto i livelli del 1990, in Gran Bretagna del 1965 – e delle emissioni di CO2 (-7%) dà l’illusione che le cose siano strutturalmente migliorate. Non è così, perché quando ne usciremo, la crescita riprenderà e con essa i consumi.

La riduzione dei prezzi dell’energia, dei redditi delle famiglie, dei profitti delle imprese ha rallentato, nonostante i bassi tassi di interesse, il turnover dello stock di capitale, dalla sostituzione delle auto all’acquisto di nuovi macchinari, castrando i miglioramenti strutturali di efficienza nell’uso di energia.

Non vi è scenario che non preveda la centralità del petrolio anche nel lunghissimo termine, a dimostrazione che il petrolio è tutt’altro che defunto.

Non vi è scenario che non preveda la centralità del petrolio anche nel lunghissimo termine, a dimostrazione che il petrolio è tutt’altro che defunto. Uno degli scenari elaborato dal maggior sostenitore delle rinnovabili, Bloomberg NEF, prevede che nel 2050 il consumo di petrolio si collochi sui livelli del 2018

Uno degli scenari elaborato dal maggior sostenitore delle rinnovabili,
Bloomberg NEF, prevede che nel 2050 il consumo di petrolio si collochi sui livelli del 2018. L’AIE nel suo ultimo scenario di riferimento lo proietta al 2040 a 104 milioni barili/giorno: 4 in più dello scorso anno. 

Al mercato del petrolio è quindi necessario porre attenzione per le criticità, le tensioni, le incertezze che l’attraversano.

Per l’industria del petrolio il 2020 ha rappresentato uno tsunami di indescrivibile portata. Il crollo della domanda e dei prezzi ha ridotto i ricavi di oltre 1.000 miliardi di dollari; ha portato alla svalutazione di assets dell’industria petrolifera per 1.600 miliardi; ha costretto alla chiusura molti giacimenti e al fallimento molte imprese minori.

Il mercato del petrolio sembra aver raggiunto, al momento, un relativo equilibrio, con prezzi risaliti in due mesi di un 30%, oltre i 52 dollari/barile (rispetto ai 70 di inizio anno), i più alti da marzo. Un aumento dovuto alle speranze legate al vaccino, ma ancor più alla buona tenuta dell’accordo OPEC-Plus, rallentando l’aumento dell’offerta che era stata concordata, così da bilanciare il ritorno sul mercato del greggio libico e l’effetto sulla domanda della seconda ondata del coronavirus.

Se la stabilità dei prezzi è come sempre il must per tutti gli attori del mondo del petrolio, consumatori compresi, è innegabile che l’alleanza OPEC-Plus – imperniata sull’asse Ryad-Mosca – ne costituisca il baricentro ed il maggior artefice. A 60 anni dalla sua istituzione, l’OPEC, nonostante le alterne vicende che ha attraversato – per i forti e talora cruenti contrasti tra suoi Stati membri; il minor ruolo nella fissazione diretta dei prezzi (se non attraverso la gestione dell’offerta); l’entrata esponenziale della produzione americana – ha ritrovato proprio durante o a causa della crisi sanitaria una compattezza prima inimmaginabile, con livelli di compliance delle intese superiori al 100%. Recuperando, quel che più conta, un rinnovato ruolo centrale nel governo del mondo del petrolio che non potrà che rafforzarsi nei prossimi decenni considerando che l’insieme dei paesi OPEC controlla il 70% delle riserve provate di petrolio: la futura offerta. 

La conclusione è che la politica non può pensare che il petrolio sia ormai fuori dal gioco dell’energia. Che sia una variabile indipendente della transizione energetica, essendo vero semmai il contrario. Che di esso non meriti interessarsi. Non è così. Illudersi del contrario potrebbe essere molto costoso

Guardando al breve, molto dipenderà dalla durata della crisi sanitaria e dall’andamento della domanda. La seconda ondata del virus ne ha rallentato la crescita prevista a fine anno a 91,3 milioni barili/giorno, 8,3 in meno dei 100 dello scorso anno, mentre nel 2021 dovrebbe risalire a 97,1 milioni barili/giorno, appena 3 in meno dei livelli pre-crisi. Questa crescita, a parità di altre condizioni, potrebbe rafforzare ulteriormente i prezzi a livelli verso i 55-60 dollari/barile.

La domanda in Cina e India è già superiore a quella dello scorso anno, con Pechino che ha registrato il nuovo massimo storico di importazioni. Nel mondo del petrolio l’Oriente conterà sempre più; l’Europa sempre meno, anche se i suoi consumi di petrolio ammonteranno nel 2030 a 10 milioni barili/giorno, quasi interamente di importazione.

Morale: del mercato del petrolio l’Europa dovrà, dovrebbe, gioco forza interessarsi e preoccuparsi. Quel che oggi non è dato vedere: essendo il petrolio ed in parte anche il metano (che insieme contano per il 63% della domanda energetica europea) ritenuti da Bruxelles ormai residuali rispetto alle nuove rinnovabili, solare ed eolico (e non viceversa) e alle prospettive dischiuse dalle nuove tecnologie (a partire dall’idrogeno) in una prospettiva comunque di lunghissimo termine, come indicato dall’Agenzia di Parigi nel suo rapporto Energy Technology Perspectives. E, come diceva Keynes, nel lungo termine bisogna arrivarci vivi.

Se il mercato sembra aver raggiunto un relativo equilibrio nel breve termine – comunque esposto a variabili imponderabili – non altrettanto può dirsi per il medio-lungo termine. L’assedio cui le compagnie petrolifere sono costrette; la pressione dei loro azionisti a ridurre l’impegno nei business tradizionali; i rischi che la domanda possa aver toccato il suo picco, sono altrettante ragioni alla base della loro strategia di tagliare drasticamente gli investimenti nell’esplorazione-sviluppo, a livelli la metà di quelli di un quinquennio fa.

Soddisfare la domanda di petrolio non è più una loro priorità. Lo è piuttosto sopravvivere.

Da questo taglio deriverà, non è una previsione ma una certezza, un “vuoto” di offerta nei prossimi anni. Secondo l’Agenzia di Parigi, il taglio di quest’anno potrebbe ridurre nel 2025 l’offerta corrente di 2 milioni barili/giorno con una parte dei giacimenti che potrebbe non riattivarsi. Mentre il dimezzamento delle spese ha portato ad un crollo delle nuove scoperte di petrolio e metano convenzionale: da poco meno di 50 a circa 15 miliardi di barili petrolio equivalente.

Va da sé che se non si cerca non si trova.

Il rischio sempre più concreto è che se la domanda avrà a riprendersi, come generalmente previsto e auspicato, potrà avviarsi un nuovo super-cycle dei prezzi nel giro di pochi anni. Secondo JP Morgan la domanda potrebbe tornare a fine 2021 ai livelli pre-crisi, con la prospettiva nel 2025 di un deficit di 6,8 milioni di barili al giorno. Se accadesse, i prezzi potrebbero balzare a suo avviso addirittura a 190 dollari al barile.

Al di là dei prezzi vi è comunque un ampio consenso che si possa passare dallo scenario di undersupplyche ha caratterizzato il passato quinquennio ad uno di undersupply. Una prospettiva che potrebbe avverarsi se finalmente si avrà il vaccino e si riprenderà a viaggiare e a volare. Uno shock dei prezzi del greggio ritarderebbe l’uscita dalla recessione, colpendo l’economia dei paesi più deboli, tra cui la nostra.

La conclusione è che la politica non può pensare che il petrolio sia ormai fuori dal gioco dell’energia. Che sia una variabile indipendente della transizione energetica, essendo vero semmai il contrario. Che di esso non meriti interessarsi. Non è così. Illudersi del contrario potrebbe essere molto costoso. William Nordhaus, premio Nobel dell’economia, ha dichiarato poco tempo fa che “è impossibile raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale entro i due grandi centigradi”.

Bisogna operare per riuscirci senza dimenticare la centralità attuale e futura del petrolio.

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