Muoversi 2 2022
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LA VERA POLITICA NON SI MISURA SULLA CAPACITÀ DI PRENDERE LIKE

LA VERA POLITICA NON SI MISURA

SULLA CAPACITÀ DI PRENDERE LIKE

di Claudio Velardi

Claudio Velardi

Presidente di FOR

Per parlare a ragion veduta dell’attuale impatto della comunicazione sulle scelte politiche, è forse necessaria una sintetica premessa, definiamola di contesto. Dalla caduta del Muro, quando la politica ha formalizzato l’uscita dalla sua dimensione ideologica, fino allo sviluppo pervasivo della rete – insomma negli ultimi 30 anni e passa – la costruzione e l’organizzazione del consenso hanno progressivamente cambiato direzione di marcia, fino a rovesciare completamente la propria rotta. Per capirci, in breve: oggi non esiste più un popolo che vota per una determinata e strutturata ideologia, ma è l’ideologia del momento (erratica, fatta di specifiche issues) a rincorrere il sentiment (di una parte) del popolo. In un movimento che non parte più dall’alto per raggiungere e indottrinare il basso ma, al contrario, vive in un continuo, contraddittorio scambio tra il basso e l’alto. Tra la società (o meglio, gli individui che la compongono) e la politica.

La comunicazione politica, in sostanza, si è adattata ai nuovi strumenti a disposizione. Ma che succede se tutto viene subordinato alla comunicazione? Che succede se l’imperativo non è più “fare qualcosa per poi comunicarlo” ma “fare qualcosa perché lo si deve comunicare”? Succede che chi dovrebbe comunicare diventa dipendente dalla comunicazione stessa. Con il risultato che non importa cosa si dica. Basta che si dica qualcosa

Fatta l’inevitabile premessa, la prima domanda da porsi è: si può fare politica senza comunicare? No. Secco e diretto. Senza repliche. Perché, nell’immediatezza della comunicazione di oggi e dei suoi strumenti, fare qualcosa senza parlarne equivale praticamente a non farla. Anzi, se vogliamo essere precisi: se fai qualcosa pensando di poterne non parlare, sbagli. Perché anche il tuo silenzio comunica. E il brutto è che non sei tu a decidere come. Conclusione: non si dovrebbe mai cominciare qualcosa (pensare, agire, etc…) senza sapere che uso comunicativo farne.

Soprattutto perché oggi il potere che la comunicazione dà a chi sa utilizzarla è pure misurabile. Se solo consideriamo i social (Instagram, Facebook, TikTok…) più il tuo brand personale è forte, più hai seguito, in termini di followers. Ne sono conclamati esempi i Khaby Lame e le Chiara Ferragni, che comunicano sé stessi e i marchi che sponsorizzano ricavandone profitto. E quindi la comunicazione come strumento, ha – sempre! – un impatto decisivo. Se utilizzata bene.

Anche la comunicazione politica, lo abbiamo visto durante la pandemia, è cambiata molto, in relativamente poco tempo. Nel 2020, in pieno lockdown, l’evento più atteso della settimana era la diretta dell’allora Presidente del Consiglio, Conte, o quella del presidente campano Vincenzo De Luca (ripreso pure da Naomi Campbell, che ne aveva apprezzato evidentemente la verve). La comunicazione politica, in sostanza, si è adattata ai nuovi strumenti a disposizione. Ma che succede se tutto viene subordinato alla comunicazione? Che succede se l’imperativo non è più “fare qualcosa per poi comunicarlo” ma “fare qualcosa perché lo si deve comunicare”? Succede che chi dovrebbe comunicare diventa dipendente dalla comunicazione stessa. Con il risultato che non importa cosa si dica. Basta che si dica qualcosa, whatever it takes. A quel punto il politico si trasforma, o prova a trasformarsi, in un influencer. E l’obiettivo unico diventa allargare il proprio pubblico di riferimento, acquisire sempre nuovi follower, stare sul pezzo, non finire mai nel dimenticatoio.

Niente da dire, la cosa spesso funziona, per un po’ di tempo, e può dare luogo a fenomeni importanti, anche molto. Basta pensare all’esplosione del Movimento 5 stelle, che è cresciuto a dismisura proprio grazie alla comunicazione social, così come hanno fatto e fanno molti rappresentanti politici. Una volta venuta a cadere l’intermediazione e la costruzione del consenso attraverso i canali di un partito, la rete ti consente (peraltro senza dispendio eccessivo di risorse) di creare un rapporto diretto, immediato appunto, con il pubblico cui vuoi rivolgerti. E, se hai a disposizione una batteria di parole d’ordine semplici, ammiccanti e furbesche, il successo arriva. Il punto è che, se la politica si limita a seguire i trend dei social, dopo un po’ viene inevitabilmente travolta. Perché la rete vive di bulimia, è una bestia affamata e arriva sempre a ribellarsi e governare senza pietà, come nelle peggiori distopie, i suoi utilizzatori. E questa, signori miei, è una legge inesorabile.

Insomma, l’influencer e il politico hanno (devono avere) modalità di azione e obiettivi diversi. Non si possono “misurare” allo stesso modo con le sfide della comunicazione. Ci sta che i politici diffondano i loro messaggi sui social, ma non per diventare influencer

Quindi – detto che il consenso è alla base di qualsiasi attività si svolga in relazione col grande pubblico, che l’opinione è notoriamente umorale (quella politica, poi…), e che è più che lecito tentare di accaparrarselo e conservarlo, il consenso – detto tutto questo, la politica non può solo assecondare umori, deve opzionare e scegliere le buone pratiche. Gli effetti di una comunicazione politica appiattita sul “pop” si rivelano sempre dannosi, più prima che poi. Prendiamo ad esempio quello che abbiamo ascoltato e letto nelle settimane scorse sul caro benzina-diesel. Da una parte le dichiarazioni standard, di natura istituzionale: “il governo si sta muovendo”, “già nei prossimi giorni alcune misure potranno essere prese”. Dall’altra, rilasciate in maniera informale dalle stesse istituzioni, espressioni tipo “truffa colossale” a proposito dell’aumento ingiustificato del prezzo dei carburanti, che hanno ovviamente trovato succose occasioni di rimbalzo sui social. Qual è la cifra giusta di comunicazione per un’istituzione pubblica in un caso del genere?  Non c’è bisogno di spendere troppe parole per dire che la via giusta è la prima. Con la seconda magari ottieni qualche titolo di giornale, però finisci su un terreno che non è il tuo, su cui sono molto più forti coloro che urlano, gettano allarmi complottistici (“piove, governo ladro!”), e lavorano più o meno consapevolmente per la delegittimazione della politica. Se scegli invece la linea istituzionale, sobria, fatta di informazione complessa quanto complesse sono le emergenze che viviamo, a breve puoi trovarti in difficoltà, ma se mantieni la barra dritta e sai di che cosa parli, alla lunga puoi convincere.

Insomma, l’influencer e il politico hanno (devono avere) modalità di azione e obiettivi diversi. Non si possono “misurare” allo stesso modo con le sfide della comunicazione. Ci sta che i politici diffondano i loro messaggi sui social, ma non per diventare influencer. La politica si misura sulla capacità di cambiare le cose, non sui like che si prendono.