Muoversi 2 2022
17

IL NODO MAI RISOLTO DELLA SICUREZZA ENERGETICA

IL NODO MAI RISOLTO

DELLA SICUREZZA ENERGETICA

di Giorgio Carlevaro

Il progresso dell’uomo si è sempre accompagnato con la sua capacità di sfruttare l’energia che via via ha avuto a sua disposizione. Fasi di emergenza e crisi ci sono sempre state, ogni volta affrontate e superate. La sicurezza energetica però non può essere una moda di stagione e oggi più che mai, come ci racconta Giorgio Carlevaro in questa nuova puntata della Storia del Petrolio.

Giorgio Carlevaro

Direttore emerito

Staffetta Quotidiana

La scoperta della dipendenza dell’Italia dal gas russo e la sorpresa e i timori che ha suscitato hanno riportato alla ribalta un tema vecchio quanto è vecchia la storia dell’energia, quello cioè della sicurezza dei rifornimenti. La garanzia cioè che la sua disponibilità non venga mai interrotta e la sua mancanza non rischi di diventare un’arma nelle mani di chi ne dispone e la fornisce. Evitando possibili ricatti. Un tema declinato nel corso degli anni e nel passare delle generazioni in vari modi, salvo finire regolarmente nel dimenticatoio quando passa l’emergenza e gridare all’imprudenza di chi se ne era dimenticato quando l’emergenza ritorna. Come accade oggi. Da qui l’importanza di riannodare il filo della storia per capire le cause di questa distrazione di massa ed evitare di ricascarci. Non per semplice curiosità storica, ma perché ogni volta il prezzo che si paga è molto elevato e ricade in genere sulle fasce più deboli, accrescendo le disuguaglianze sociali.

Un compito che dovrebbe essere svolto senza soluzione di continuità dai Governi in carica e dai Ministeri competenti.  Perché la sicurezza energetica non è una moda di stagione e non può essere condizionata da scelte politiche o dal prevalere di questa o quella fonte di energia. È un must. Al di sopra di interessi contingenti di questa o quella forza politica. Un diritto che, come tale. meriterebbe di essere scritto nella Costituzione, al pari del diritto al lavoro.   

Questa premessa è doverosa tanto più oggi che alle tre emergenze sanitaria, economica e sociale che lo scorso anno portarono Mario Draghi a Palazzo Chigi e due mesi fa alla riconferma di Sergio Mattarella al Quirinale, il sopraggiungere dell’emergenza bellica ha riportato alla ribalta in maniera urgente proprio il tema della sicurezza energetica. Complicando non poco la governance del Paese e trasformando l’attuale governo in un vero e proprio “gabinetto di guerra”. Che in Italia non si vedeva più dal 1945, dalla fine cioè della seconda guerra mondiale. Quando al regime fascista subentrarono i governi della ricostruzione e della rinascita economica e sociale, in un contesto istituzionale segnato tra l’altro nel 1946 dal passaggio dalla Monarchia alla Repubblica. Con l’ultima dichiarazione di guerra che risale al 13 ottobre 1943 quando il governo Badoglio, costituito il 26 luglio dopo la destituzione di Mussolini, aveva dichiarato guerra alla Germania.

Questo non significa che da allora non ci furono più emergenze e crisi ma che esse furono affrontate e risolte con metodi e misure di carattere ordinario e contingente dalle maggioranze politiche che si sono alternate alla guida del Paese negli ultimi 77 anni.  A partire dal governo di Ivanoe Bonomi insediato il 9 giugno 1944 dopo la liberazione di Roma, il primo ad essere espresso democraticamente dopo il 1922. A cui seguì il 21 giugno 1945, dopo la liberazione completa del Paese e la fine della guerra, il governo Parri e il 10 dicembre dello stesso anno il primo governo De Gasperi. Con l’ultimo Ministro della Guerra che rimase in carica fino al 2 febbraio 1947 quando venne sostituito da allora fino ad oggi dal Ministro della Difesa. Senza più dichiarazioni di guerra. Con la Costituzione della Repubblica, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, che all’art. 11 sancisce che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

In questo contesto, l’invasione il 24 febbraio scorso dell’Ucraina da parte della Russia, costituisce tra quelle che l’Italia ha affrontato in questi anni una crisi per molti versi anomala. Perché da subito, come ha rilevato il Presidente Draghi già nella prima informativa al Parlamento del 25 febbraio, il peso della Russia nella copertura dell’import del gas naturale, pari a circa il 45%, in aumento dal 27% di 10 anni fa, ha finito per diventare “la maggiore preoccupazione”. A dimostrazione, ha rilevato il Premier, “dell’imprudenza di non aver diversificato maggiormente negli ultimi decenni le nostre fonti di energia e i nostri fornitori”. Riducendo per di più la produzione domestica dai 17 miliardi di metri cubi del 2000 ai circa 3 miliardi del 2020. Il tutto a fronte di un consumo nazionale che è rimasto costante tra i 70 e 90 miliardi di metri cubi. Di una fonte di energia che “resta essenziale come combustibile di transizione” e che pesa sul totale del fabbisogno energetico italiano per circa il 40%.

Un quadro, quello illustrato da Draghi, che preconizza la necessità di dover gestire a breve “una possibile crisi energetica di portata storica” e la riapertura tra l’altro delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato. Con interventi anche per calmierare il prezzo dell’energia colpito da mesi da forti rincari. Una crisi che in definitiva impone l’obbligo, ha aggiunto, di prestare d’ora in poi maggiore attenzione ai rischi geopolitici che pesano sulla politica energetica italiana e di ridurre la vulnerabilità delle nostre forniture. Non solo di gas ma anche di petrolio, una fonte le cui forniture sono peraltro più diversificate ma che a sua volta pesa ancora sulla copertura del fabbisogno per circa un terzo.

Due rilievi, quelli di Draghi, il primo sulla mancata diversificazione delle fonti e dei fornitori e il secondo sulla scarsa attenzione ai rischi geopolitici, che non da oggi caratterizzano la politica energetica italiana. E che riguardano direttamente proprio la sicurezza energetica del Paese.

Per la verità sul gas in Italia dall’ottobre 2001, a seguito della liberalizzazione del mercato (decreto Letta), è in funzione un Comitato tecnico di emergenza e monitoraggio del sistema nazionale del gas naturale. Passato lo scorso anno dal Mise a Mite e ricostituito dal Ministro Cingolani non più tardi del 15 ottobre 2021. In forza del quale già il 26 febbraio lo stesso Cingolani ha potuto decretare lo stato di pre-allarme

La prima volta che nel dopoguerra il Governo si era dovuto confrontare con un’emergenza energetica era stata nel marzo 1951 in occasione degli sviluppi della prima crisi persiana quando la capacità dell’industria petrolifera internazionale di far fronte ad un’emergenza venne messa alla prova. Anche se in fondo si trattò di sostituire il 6% dell’offerta mondiale di greggio e di prodotti petroliferi, circa 32 milioni di tonnellate, su un consumo mondiale di 600 milioni assorbito in gran parte dagli Stati Uniti. Con l’Italia chiamata a fare la sua parte mettendo a disposizione dei mercati in Mediterraneo una parte del surplus di benzina e di gasolio ottenuto dalle sue raffinerie. Una fragilità dei rifornimenti petroliferi europei messa ancor più in evidenza in occasione della chiusura del Canale di Suez. Tra l’inizio del novembre 1956 e il marzo del 1957. Quando in Italia un “Decreto catenaccio” del 22 novembre aumentò di 14 lire/litro il prezzo della benzina per compensare l’aumento del greggio. Una crisi che spinse il Presidente dell’Eni, Enrico Mattei, a “sdoganare” l’industria petrolifera sovietica, che dal 1955 aveva cominciato a esportare petrolio a prezzi competitivi. Per concludere nel 1958 un rilevante contratto di importazione di 12,5 milioni di tonnellate di petrolio greggio in tre anni. E, anziché pagarlo in dollari, organizzando uno dei primi barter commerciali fornendo in contropartita tubazioni per oleodotti e gasdotti della Finsider e fertilizzanti e gomma sintetica dell’Eni. Eravamo ai tempi della guerra fredda e trattandosi di materiale strategico l’accordo non mancò di provocare rimostranze e critiche nei confronti di Mattei, anche da parte delle “sette sorelle”.

Crisi, quelle del 1951 e del 1956, che non portano a nulla ai fini della ricerca di una maggiore sicurezza. Neppure a seguito della nascita nel 1960 dell’Opec, un evento che avrà negli anni effetti dirompenti sull’assetto e gli equilibri dell’industria petrolifera mondiale. Culminati nell’ottobre 1973 nella crisi del Kippur. Quando, nel pieno di quella che è passata alla storia come l’Età del Petrolio, con una dipendenza molto forte da questa fonte, in Italia addirittura del 74%, vengono al pettine i problemi di cui istituzioni, partiti, sindacati e la stessa industria si erano dimostrati incapaci di comprenderne le avvisaglie, capirne le cause e adottare eventuali contromisure. Crisi che getta nel panico tutto il mondo industrializzato e da cui scaturisce il 18 novembre 1974, sotto la spinta degli Stati Uniti e l’appoggio anche dell’Italia, la nascita dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) con sede a Parigi. Con il compito di gestire le emergenze con un “approccio coordinato”. Un’attenzione che non riguarda solo il petrolio ma, a partire dal 1995, anche il gas naturale. In vista dei rischi, rilevava all’epoca uno studio dell’Aie, legati alla crescita dei volumi importati da paesi, come l’Algeria e la Russia, in cui si riscontra un’elevata instabilità politica. Un contesto in cui i governi, oltre a favorire scambi e interconnessioni tra paesi confinanti, avrebbero dovuto mettere a punto strumenti legislativi in grado di rispondere a eventuali situazioni di emergenza.  E per l’Agenzia la conseguenza di diventare punto di riferimento essenziale, ed in un certo senso obbligato, per il coordinamento della politica energetica tra i Paesi industrializzati. Aprendosi alla collaborazione anche con Paesi che non ne facevano parte. Buone intenzioni che poi si sono perse per strada.

Le occasioni per intervenire in quasi 50 anni purtroppo non sono mancate. A partire da quella causata il 1° agosto 1991 dall’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq. Con i primi interventi di fuels switching, destoccaggi e tagli ai consumi. Un’esperienza che esaltò le disfunzioni registrate nella gestione delle scorte d’obbligo dei prodotti petroliferi disciplinata in Italia da una legge del 1981, con l’introduzione inoltre nel 1986 di una scorta strategica tenuta dall’Eni per conto dello Stato (abolita dalla finanziaria 1997). Con la necessità di aggiornare periodicamente i piani di intervento e di tenere sotto controllo la situazione della struttura degli approvvigionamenti petroliferi e delle scorte nei singoli paesi membri. E dieci anni dopo l’11 settembre 2001 con l’attacco terroristico alle Torri Gemelle a New York. Con immediati riflessi sui mercati del petrolio e dell’energia.

Tra gli effetti della crisi del Kippur anche la nascita nel giugno 1973 per iniziativa di David Rockfeller della Commissione Trilaterale: un organismo internazionale di cui fanno parte uomini d’affari, politici, intellettuali e giornalisti dell’Europa Occidentale, del Nord America e del Giappone per incoraggiare la cooperazione internazionale tra queste tre aree su problemi di comune interesse, tra cui quello della sicurezza energetica. Oggetto nel 1996 di un rapporto, “Mantenere la sicurezza energetica nel contesto globale”, in cui si lamentava la scarsa attenzione dei paesi industrializzati al crescente ruolo del Golfo negli approvvigionamenti petroliferi mondiali e si sottolineava la necessità di dedicare maggiore impegno alla questione energetica.

La fine degli anni ‘80 era stata segnata anche dalla caduta del Muro di Berlino e dalla riunificazione della Germania, sancita il 3 ottobre 1990, e dalla disgregazione dell’Unione Sovietica e dall’indipendenza delle repubbliche che ne facevano parte, tra cui l’Ucraina: un lungo processo concluso nel 1991 che cambiò drasticamente anche il quadro di riferimento dell’energia in Europa, attirando l’attenzione e l’interesse di numerose compagnie anche italiane.

Emergenze che hanno toccato nel corso degli anni anche l’industria elettrica con l’incidente nel marzo 1979 alla centrale di Three Mile Island in Usa, con quello ben più grave nell’aprile 1986 alla centrale di Chernobyl in Ucraina, allora ancora parte dell’Urss, e con quello di Fukushima in Giappone del marzo 2011. Con i primi due che in Italia portarono allo stop al nucleare sancito dall’esito del referendum dell’8 novembre 1987, la prima volta che gli italiani vennero chiamati a pronunciarsi su una questione che riguardava l’energia. Con la immediata messa in liquidazione dell’industria nucleare, che aveva raggiunto livelli di elevata eccellenza in campo internazionale, e con effetti diretti sull’Enel che allora copriva oltre il 70% del fabbisogno elettrico italiano. Che fu costretta a chiudere le centrali del Garigliano, di Latina, di Trino Vercellese e di Caorso e a interrompere la costruzione di quella di Montalto di Castro. Una situazione che presenta da subito gli estremi di una emergenza elettrica ai limiti della sicurezza, con la necessità di adottare con “urgenza un piano tampone”. E che ancora oggi impedisce di fatto all’’Italia di ricorrere a questa fonte a differenza di altri paesi europei, a cominciare dalla Francia che è diventata uno di nostri maggiori fornitori di elettricità. Con la necessità anche di elaborare un nuovo piano energetico, lo strumento che a partire dagli anni ’70 faceva da cornice a ogni decisione in tema di energia. Strumento oggi caduto in disuso. Con una risoluzione, approvata dalla Camera il 18 dicembre 1987, che impegnava il Governo ad assicurare maggiore flessibilità nella produzione di energia, a prevedere una adeguata politica di diversificazione delle fonti, a condurre un’analisi dettagliata del parco elettrico, a perseguire la realizzazione di centrali policombustibile, ad incrementare lo sfruttamento delle risorse idroelettriche, anche minori  e anche da parte degli auto-produttori,  e l’utilizzo dei campi geotermici e delle fonti rinnovabili. Il tutto travasato nel Pen 1988 che vide la luce il 12 maggio 1989, l’ultimo della serie. Sostituito dalla Sen e dal Pniec.

Strumenti oggi superati dalla necessità di inquadrare e raccordare anche le scelte di politica energetica in un approccio coordinato dall’Unione europea. È in quella sede infatti che dovrebbero essere collocate, una volta cessata l’emergenza Ucraina, gli indirizzi di diversificazione delle fonti e dei fornitori, di riduzione della vulnerabilità delle forniture e le misure di contrasto ai rischi geopolitici indicati da Draghi. Ad evitare che, come è accaduto tante volte in passato, restino solo delle mere intenzioni.