Muoversi 1 2022
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RASSEGNA STAMPA

Presentiamo una rassegna stampa sull’attualità delle ultime settimane.

2 dicembre 2021, Francesco Bertolino

Tavares: elettrico non sostenibile. Questa transizione ha costi eccessivi

Carlos Tavares lancia l’allarme sulla transizione elettrica dell’auto. I ritmi pretesi da autorità e mercato sono insostenibili perché comportano costi «oltre i limiti», minacciando non solo l’occupazione di settore ma anche la sopravvivenza stessa dei costruttori. «Si è deciso di imporre all’industria dell’auto un’elettrificazione che implica il 50% di costi in più rispetto a un veicolo tradizionale», ha sottolineato il Ceo di Stellantis durante il convegno Reuters Next. «Non c’è modo per noi di trasferire questi oneri aggiuntivi al consumatore finale perché la maggior parte della classe media non sarebbe in grado di sostenerli. Per scongiurarlo, o quantomeno attutire l’impatto dell’elettrico sull’occupazione, Stellantis punta ad aumentare la produttività su livelli altrettanto senza precedenti. Una sfida enorme, forse appunto «oltre i limiti» raggiungibili da molte case auto. «Il futuro dirà chi riuscirà a digerire tutto ciò e chi fallirà», ha chiosato Tavares, auspicando una maggiore gradualità nella trasformazione. Accelerare la pur necessaria transizione elettrica «finirà solo per essere controproducente: causerà problemi qualità e di ogni altra sorta».  Nel piano Fit for 55 la Commissione Ue ha proposto un bando di fatto alle vendite di nuove vetture diesel e benzina a partire dal 2035, un obiettivo giudicato irrealizzabile da diversi costruttori e da un numero crescente di governi, preoccupati per le ricadute occupazionali e addirittura per l’accesso democratico alla mobilità.

3 gennaio 2022, Davide Tabarelli

Ma ora l’atomo  è una necessità

Se non ci fosse il nucleare l’Europa da tempo sarebbe finita al buio. È la prima fonte nella produzione elettrica, con il 25% del totale nel 2020, 700 miliardi di chilowattora provenienti da 120 impianti perfettamente funzionanti, senza emettere un grammo di CO2. La seconda fonte è il gas, con il 20%, poi viene il tanto amato eolico con il 14%, il carbone 13%, il grande idroelettrico 12%, il fotovoltaico 5%, mentre il rimanente 11% riguarda altre fonti come rifiuti, legno e prodotti petroliferi.

Al di là del primato di produzione, il nucleare è essenziale perché è lo zoccolo duro, la capacità di base, che permette stabilità ad un sistema estremamente complesso fatto di fili che collegano un migliaio di grandi centrali elettriche, con i miliardi di dispositivi dei consumatori finali. Il nucleare, assieme al carbone e al gas, garantisce che quella frequenza sia mantenuta costante, fino agli ospedali, ai supermercati, alle nostre case, per i nostri telefonini, il forno, la tv, la luce. Se si sbaglia di poco, il sistema salta. Attaccati a queste grandi impianti ci sono poi i milioni di piccole unità a fonti rinnovabili, per lo più vento e sole, che sono però intermittenti e che creano grande confusione sulle reti. Pensare di rinunciare già oggi al nucleare è impossibile, altro che discussioni sofisticate di tassonomia verde.

7 gennaio 2022, Chicco Testa

La scommessa elettrica

Perché è difficile, quasi impossibile, che l’Italia raggiunga nel 2050 gli obiettivi della transizione energetica.

La parola chiave della transizione è “elettricità”. La seconda è “rinnovabili”. Gli usi finali di energia del mondo contemporaneo sono solo in parte soddisfatti dall’elettricità. In Italia il 20 per cento, più meno come in tutto il mondo sviluppato. Il resto viene soddisfatto quasi totalmente dai combustibili fossili: carbone, petrolio, gas, che ci servono per trasportarci, per alimentare molte industrie, per scaldarci, per cucinare. E anche per produrre elettricità. Si tratta, ogni giorno, di qualche cosa come circa 100 milioni di barili di petrolio (1 barile sono 160 litri), 15-20 milioni di tonnellate di carbone, 11 miliardi di metri cubi di gas. Ogni giorno. Sostituire tutta questa roba, o una gran parte di essa, con energia elettrica, anche intuitivamente si capisce che è un compito immane.

Quindi l’elettricità andrebbe generata con le rinnovabili. Bene, vediamo qualche numero. Cominciamo dall’Italia. Nel nostro scenario 2050 la penetrazione elettrica dovrebbe salire dal 20 per cento attuale al 55 per cento. E tutto dovrebbe essere fatto con le rinnovabili. Credo che risulti evidente, è bene dirlo con chiarezza, l’enorme difficoltà, per non dire l’impossibilità di raggiungere obbiettivi di questo genere. Nessuno può ragionevolmente pensare che l’Italia possa essere in grado di ospitare questa quantità di fonti rinnovabili. (…) A questo punto sento arrivare l’obiezione: “Dillo che sei contro la transizione”. Che è più o meno come dire che se faccio presente a qualcuno che cercare di scalare il K2 a piedi scalzi è un po’ improbabile, vuoi dire che sono contro le ascensioni in montagna. La transizione va fatta, è in corso ed era in corso. Ma non serve, se non a prendere decisioni sbagliate e sperperare una montagna di soldi, continuare ad alzare l’asticella. Così si rischia solo di creare una grande confusione, distruggere ricchezza, posti di lavoro e imprese. In primo luogo ci vuole tempo-. La transizione non si compirà in pochi decenni, sarà un processo molto più lungo, soprattutto per quei quattro quinti di umanità che vivrà dai paesi oggi sviluppati. Secondo. Avremo bisogno dei combustibili fossili ancora per un lungo periodo. Soprattutto in quei paesi – Africa, Cina, India, ecc, – che hanno fame di energia senza la quale non c’è né crescita economica né giustizia sociale. Terzo, Non possiamo affidarci solo alle rinnovabili e quindi bisogna limitare l’impatto dei fossili per esempio attraverso il sequestro della C02, associato alle produzioni che ne emettono, e qui si apre un’altra finestra, quella delle cose che ci sono oggi e delle cose che potrebbero esserci domani.

9 gennaio 2022, Rita Querzè

Intervista a Claudio Spinaci : «Raffinerie, 20 mila posti a rischio»

Ventimila posti a rischio nella raffinazione del petrolio, settore con 21 mila dipendenti diretti e 150 mila indiretti. Questo l’allarme lanciato da Claudio Spinaci, presidente Unem, Unione energie per la mobilità, ex Unione petrolifera: 39 aziende associate, 40 aggregate e 100 miliardi di fatturato l’anno. «Siamo di fronte a una transizione che va governata. Ma non lo stiamo facendo. Il 2021 è stato un anno drammatico. Siamo in ginocchio e in ginocchio dobbiamo affrontare la riconversione».

Perché? «Le raffinerie italiane lavorano rispettando norme ambientali rigorose. Il petrolio se non lo raffiniamo noi sarà raffinato in Paesi che non hanno questi vincoli. Se non raffiniamo da soli ci esponiamo a crisi di rifornimento e saremo dipendenti dalle raffinerie di Asia e Medio Oriente».

Che cosa una raffineria può lavorare al posto del petrolio? «Una raffineria può produrre biocarburanti da biomasse o carburanti sintetici da idrogeno e CO2 catturata e stoccata. Alcune Io stanno già facendo. Già oggi il 10% circa dei carburanti deriva da biomasse. I rifiuti diventeranno materie prime secondarie. Certo, non tutti si riconvertiranno, siamo consapevoli che questa transizione porterà a chiusure. Che paradossalmente rischiano di creare un ulteriore danno ambientale».

La via verso un carburante che permetta al motore endotermico di funzionare a emissioni zero non pare breve. «Perché forse non ci sono ostacoli da risolvere sulla strada della mobilità elettrica? Eppure in quell’ambito si dà per scontato che tutto si possa risolvere. Resta il fatto che il nostro settore è a un bivio. Chi vuole restare in campo deve mettere in conto miliardi di investimenti e una fase lunga di perdite. Investimenti pubblici non ce ne sono. Con lo stop alle immatricolazioni di auto con motore endotermico a partire dal 2035 si sta favorendo l’elettrico. Ma non si sono fatti i conti con quello che succederà a breve».

Che cosa succederà? «Il nostro settore ha cicli di investimento di 6-7 anni. Se le nostre imprese smettono di investire oggi, al 2035 i nostri impianti non ci arrivano. Chiudiamo prima. Con una doppia beffa: da una parte il Paese non avrà il petrolio da raffinare in prodotti di cui ha ancora bisogno, dall’altra tanti posti di lavoro persi».

La stima di 20 mila posti a rischio non sarà eccessiva? «Temo di no. Il 6o% sono al Sud. Tutti i siti produttivi nei prossimi 3-4-5 anni sono a rischio. Abbiamo chiesto un tavolo di confronto al governo dove venga tracciato un percorso condiviso».