Muoversi 4 2023
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PRUDENZA PER NON METTERE A RISCHIO I CONTI

PRUDENZA PER NON METTERE A RISCHIO I CONTI

di Enrico Morando

Enrico Morando

Economista

Il contesto è dominato dall’incertezza: si prevede un rientro dall’inflazione elevata di quest’ultima fase, ma i tempi sono meno rapidi di quanto si era previsto e influiscono sull’orientamento di politica monetaria delle principali banche centrali, con FED e BCE ancora impegnate in un’attività di restrizione e la banca centrale cinese che insiste su politiche lassiste, malgrado l’esplosione della bolla immobiliare.
Agli effetti di instabilità connessi all’aggressione di Putin nei confronti dell’Ucraina, si sommano quelli – attuali e prevedibili – dell’esplosione di un vero e proprio conflitto nel sud di Israele (un solo esempio, sul versante delle conseguenze economiche: la presa di posizione più convinta nel sostegno ad Hamas è stata quella del Governo di Algeria, cioè il Paese al cui gas l’Unione europea – e l’Italia in particolare – ha massicciamente fatto ricorso per sostituire quello russo). La stessa Unione europea non ha ancora trovato un accordo tra i Paesi membri sulle nuove regole del Patto di stabilità, malgrado il lodevole impegno della Commissione, che ha proposto da tempo (novembre 2022) una soluzione che superi una volta per tutte il carattere pro-ciclico di quelle vecchie, destinate a tornare in vigore qualora non ci sia accordo sulla riforma.
Obbedisce dunque ad un criterio di elementare prudenza la scelta del Governo italiano, con la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF), di delineare una politica di bilancio che assuma contemporaneamente l’obiettivo di riportare, nel medio termine, a dimensioni meno preoccupanti il deficit e il debito pubblici; e quello di sostenere la crescita, nel frattempo tornata a farsi anemica, dopo il buon andamento nella prima parte dell’anno in corso.
Non era una scelta scontata, e la stessa NADEF ne dà conto, sia pure indirettamente: le proposte in materia pensionistica avanzate da alcuni partiti della maggioranza – sostanzialmente volte a dare continuità nel tempo alle recenti, onerosissime soluzioni per il pensionamento anticipato (quota 100 e seguenti) – sono state letteralmente derubricate; e la riforma fiscale delineata ha (per fortuna) un debolissimo rapporto di coerenza con le promesse di flat tax per tutti avanzate in campagna elettorale. Quale che sia il giudizio che si intende dare sulle numerose micromisure di sostegno dell’economia e di aiuto alle fasce più deboli della popolazione che trovano indicazione nella NADEF, l’esame di questo fondamentale documento programmatico potrà forse deludere coloro che hanno preso (troppo?) sul serio i programmi dei partiti di governo, ma non giustifica allarmi sulla tenuta dei conti pubblici e non può, di per sé, suscitare dubbi tra gli investitori che detengono o vogliono comprare titoli del debito pubblico italiano.

L’esame di questo fondamentale documento programmatico potrà forse deludere coloro che hanno preso (troppo?) sul serio i programmi dei partiti di governo, ma non giustifica allarmi sulla tenuta dei conti pubblici e non può, di per sé, suscitare dubbi tra gli investitori che detengono o vogliono comprare titoli del debito pubblico italiano

Il buon livello della domanda per le recenti emissioni di titoli di debito pubblico conferma questo giudizio, evidentemente condiviso sia dagli analisti, sia dai mercati, che premiano la prudenza ispiratrice della NADEF. Tuttavia, meglio evitare entusiasmi ingiustificati, del tipo: “ce la possiamo fare da soli“. Sia perché i tassi reali delle recenti emissioni superano la crescita prevista a legislazione vigente e quella programmata a fine triennio (2026), sia perché l’equilibrio dei conti si costruisce attorno a due scelte – un piano di dismissione di asset pubblici per un punto di Pil nel triennio e un’efficace revisione della spesa pubblica – che appaiono entrambe politicamente “difficili“ per la distanza che le separa dalla cultura politica statalista che, in Italia, accomuna larga parte della destra e della sinistra. Se entrambe queste scelte incontrassero resistenze in fase di attuazione degli indirizzi fissati nella NADEF e nel Documento Programmatico di Bilancio, l’intera impalcatura della politica fiscale italiana potrebbe risultarne compromessa, fino a pregiudicare la capacità della finanza pubblica di reggere l’urto dell’aggravamento anche solo di uno dei fattori di rischio e di incertezza richiamati all’inizio di questo articolo. È dunque necessario che le scelte di gestione del bilancio siano perfettamente coerenti con quelle compiute in sede di programmazione.
Basterà, per metterci al riparo dai rischi più gravi che occupano il nostro presente e il nostro futuro? Naturalmente, no. Proprio perché su alcuni di essi l’Italia può esercitare un’influenza moderata (sbagliato ritenerla nulla: anche sul grande tema della costruzione di un nuovo equilibrio globale l’Italia, via Unione europea, può avere un ruolo significativo), è utile che l’attenzione del Governo – e dell’opposizione – si concentri su quei rischi alla cui rimozione possiamo fornire un contributo determinante. È il caso delle regole europee per la politica di bilancio. Quelle in vigore sono state sospese per consentire ai Paesi membri politiche di bilancio espansive che altrimenti sarebbero state impossibili. Il Governo italiano ha puntato ad ottenere una regola di scomputo degli investimenti capaci di innalzare il Prodotto potenziale del Paese o, in alternativa, la proroga di un altro anno di sospensione del Patto. A questo scopo, ha pensato di muoversi – nel confronto coi partners – in una logica “a pacchetto”, includendo nello stesso anche la ratifica del nuovo MES. È risultato subito evidente che non era una strategia promettente: in primo luogo, perché lasciava nel limbo il giudizio dell’Italia sulle proposte avanzate dalla Commissione, avversate più o meno esplicitamente dalla Germania, ma condivise dalla Francia, dalla Spagna e dal Portogallo. E, in secondo luogo, perché sopravvalutava l’appeal del piano B (un altro anno di sospensione), che non ha convinto nessuno. Tant’è che oggi si dà per scontato che o si approva un nuovo sistema di regole, o si torna ad applicare le vecchie.
Il ritorno al passato sarebbe, per l’Unione, un autentico disastro: sia per partecipare da protagonista alla costruzione di un nuovo ordine mondiale; sia per concorrere alla soluzione dei drammatici problemi di sicurezza che la guerra scatenata dalla Russia di Putin crea per il mondo intero e, prima di tutto, per l’Europa; sia infine per sostenere adeguatamente la ricollocazione del sistema produttivo europeo nel ridisegno delle catene del valore, cosa per cui è indispensabile che l’Unione si doti di una significativa capacità fiscale. Se prima era una promettente prospettiva di rafforzamento del processo di integrazione, ora è una urgente necessità.
Il programma “Next Generation EU” è stato un deciso passo nella direzione giusta: risorse di bilancio europeo per sostenere politiche decise dall’Unione europea. Ora, le proposte per il nuovo Patto di stabilità avanzate dalla Commissione non conseguono l’obiettivo – un bilancio “federale” che abbia la stessa potenza del bilancio federale americano – ma muovono il sistema delle regole fiscali in questa direzione, eliminando le componenti più “stupide” (pro-cicliche) del vecchio sistema e introducendo vincoli per l’aggiustamento fiscale di ogni singolo Paese concentrati sulla spesa strutturale (al netto degli interessi). L’ostilità della Germania – convinta che la soluzione proposta dalla Commissione consenta margini di flessibilità troppo elevati – sta ora costringendo a modifiche che rischiano di pregiudicare il disegno complessivo.
Meglio sarebbe stato se l’Italia avesse da subito costruito alleanze per sostenere il sistema di regole proposto dalla Commissione, anche facendo leva su di un fatto molto rilevante: in caso di grave crisi economica, la Commissione propone l’automatica sospensione del Patto, trasformando in regola ciò che si è fatto eccezionalmente durante la pandemia. Forse però c’è ancora tempo per cambiare strada. Non fosse altro, perché il ritorno alle vecchie regole imporrebbe all’Italia una stretta fiscale capace di uccidere la già debole crescita.