Muoversi 4 2023
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IL TIRO ALLA FUNE DEL MERCATO PETROLIFERO

IL TIRO ALLA FUNE DEL MERCATO PETROLIFERO

di Lisa Orlandi 

Lisa Orlandi

Direttore RiEnergia e analista Rie

Tra embarghi, crisi bancarie, tensioni geopolitiche, incertezze sullo stato di salute dell’economia cinese e fondamentali reali in tenuta, il 2023 si sta rivelando un anno tutt’altro che scontato per il mercato petrolifero, alla stregua dei tre precedenti. Nei primi nove mesi, le quotazioni del Brent Dated hanno oscillato in prevalenza tra i 70 e i 90 doll/bbl, sforando il range al rialzo nell’ultimo mese consuntivabile, quello di settembre.

In generale, l’andamento del barile ha visto il prevalere di dinamiche rialziste – sorrette dal war premium e da aspettative di mercato “corto” – che si sono alternate a periodi di ribassi guidati dall’anxiety discount – ovvero dai timori di peggioramento della situazione economica mondiale a causa del prolungarsi del conflitto tra Russia e Ucraina, della crisi del sistema bancario americano e delle incertezze sulla tenuta dell’economia cinese, primo consumatore mondiale di petrolio.

Non è la prima volta che, nella storia dell’industria petrolifera, vengono annunciate teorie sui picchi, ora di offerta ora di domanda, in una sorta di “hubbertiano” esercizio che quasi sempre complica l’interpretazione del mercato, rendendo ancora più complesso discernere tra fatti e congetture

Le variabili dell’“anxiety discount”

Uno dei principali driver delle dinamiche ribassiste che si sono manifestate in marzo e nel bimestre maggio/giugno, con il Brent che si è mosso nella fascia 70-80 doll/bbl, è stata sicuramente la crisi bancaria di matrice statunitense. Una crisi iniziata ai primi di marzo che ha riguardato importanti istituti bancari americani e poi, con una sorta di “effetto domino”, anche europei tra cui Credit Suisse e Deutsche Bank.

Tra le fila dell’anxiety discount si sono poi inserite le preoccupazioni per i continui rialzi dei tassi di interesse da parte della BCE e, soprattutto, le incertezze sulla tenuta della Cina che va registrando crisi di liquidità sul mercato immobiliare, deflussi di capitale record dai mercati azionari e un’importante svalutazione dello yen sul dollaro. Dal 2003 in avanti, quando il gigante asiatico ha fatto la sua prepotente irruzione sui mercati petroliferi, le performance economiche del paese sono diventate pivotali: un crollo dell’economia cinese preoccupa non solo per i riflessi sulla domanda interna ma anche per l’effetto traino che potrebbe avere sugli altri paesi in via di sviluppo. Ad oggi, l’andamento dei consumi cinesi consuntivato e atteso per il 2023 non sembra risentire del contesto economico critico¹ ma il quadro generale presenta più ombre che luci.

La base dei rialzi

Nei primi due trimestri del 2023 i momenti di ribasso dei prezzi motivati dall’anxiety discount si sono alternati a diverse fasi rialziste in cui il barile si è mosso tra i 75 e gli 80 doll/bbl; soglia poi sforata in modo continuativo nel corso del mese di luglio, fino a superare i 96 verso la fine di settembre. Alla guida degli andamenti bullish, l’atteso mismatch tra domanda e offerta.

Lato consumi, le stime dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) indicano – su base annua – il conseguimento del livello record di circa 102 mil. bbl/g, grazie alla piena riapertura della Cina a tre anni dall’inizio della pandemia e, più in generale, al contributo dell’area non-OCSE che conterà per oltre il 95% della crescita prevista. In un contesto di domanda in espansione, le prospettive lato offerta fanno invece preludere ad una condizione di deficit nell’ultima parte dell’anno. Le difficoltà della produzione a tenere il passo della domanda hanno una matrice sia tecnica che volontaria. Da un lato, vi è lo scarso livello di spare capacity che caratterizza i principali produttori, date le forti difficoltà ad aumentare le riserve in un quadro di bassi investimenti upstream; dall’altro, vi è la politica dei tagli implementata sin dal novembre 2022 dall’Opec Plus che, tenendo conto anche della diminuzione volontaria di 500.000 bbl/g attuata dalla Russia in risposta alle sanzioni occidentali, ha sottratto al mercato complessivamente 3,7 milioni bbl/g. A questi vanno poi aggiunti ulteriori 1,3 mil. bbl/g² di tagli volontari da parte di Arabia Saudita e Russia che resteranno in vigore fino alla fine dell’anno. A conti fatti, si tratta dunque di 5 mil. bbl/g in meno, pari al 5% circa dell’offerta mondiale.

Una decisione che l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) ha condannato per i possibili effetti sui prezzi di un’offerta già “corta” e a cui ha risposto il segretario generale dell’Opec, Haitham Al Ghais, convinto che la volatilità delle quotazioni dipenda invece, in primo luogo, dai ripetuti appelli della stessa Aie a smettere di investire nell’upstream; quel che si legge anche nell’ultimo aggiornamento del report Net Zero by 2050 che indica il picco della domanda petrolifera già nel decennio in corso (2028). Non è la prima volta che, nella storia dell’industria petrolifera, vengono annunciate teorie sui picchi, ora di offerta ora di domanda, in una sorta di “hubbertiano” esercizio che quasi sempre complica l’interpretazione del mercato, rendendo ancora più complesso discernere tra fatti e congetture. A ciò concorrono diversi fattori, tra cui la complessità della materia, l’incertezza che le è intrinseca ma soprattutto il gioco degli interessi del mercato. Non è un caso, infatti, che l’Opec indichi il 2045 come data possibile del demand peak: un lag temporale enorme rispetto alle stime Aie, che rivela con chiarezza le difficoltà proprie di una simile proiezione, più rispondente ai desiderata dei suoi autori che non a fondate evidenze. Nella totale ignoranza su quel che verrà, la divulgazione di simili teorie e delle azioni conseguenti porta con sé dei rischi importanti che si concretizzano nel momento in cui la realtà risulti diversa dalle congetture. In questo senso, la crisi energetica del 2021-2022 ci ha fornito un chiaro assaggio delle ricadute sui prezzi generate da bassi livelli di investimento nell’upstream.

La natura geopolitica di questa misura è emersa poi chiaramente con l’improvvisa e quasi completa eliminazione - dopo appena due settimane dalla sua applicazione - del divieto di export del gasolio, prodotto traino delle esportazioni energetiche del paese. Breve ma intensa, la manovra ha quindi dimostrato quanto siano scoperti i nervi del mercato e quanto sia delicato il meccanismo di azione-reazione in atto

Gli effetti a due vie dell’embargo

Al di fuori della teoria dei picchi, si possono invece formulare ipotesi robuste circa le ripercussioni che potranno derivare dagli embarghi imposti dall’Occidente verso greggio e prodotti russi. Anche se l’avvio dei ban tra dicembre 2022 e febbraio 2023 non ha sortito effetti al rialzo duraturi sulle quotazioni, rimane un elemento di vulnerabilità per il mercato ed è molto probabile che – a posteriori – il 2023 si qualifichi come un anno foriero di un nuovo ordine delle cose dettato da una netta e profonda riconfigurazione dei flussi petroliferi commerciali: da un lato l’Europa, che deve assicurarsi approvvigionamenti alternativi a quelli di Mosca; dall’altro la Russia, che deve riallocare le proprie esportazioni verso nuovi acquirenti, prevalentemente asiatici. Anche se un simile riassetto non è limitativo dell’offerta disponibile, le difficoltà logistiche che esso comporta (ad esempio l’allungamento delle rotte e quindi meno barili consegnati al giorno) potrebbero incidere al rialzo sui prezzi. Analogamente, la ridefinizione dei flussi inciderà sugli equilibri geopolitici globali, con inevitabili conseguenze di breve e di lungo periodo.

Ne è prova il parziale divieto³ alle proprie esportazioni di benzina e diesel introdotto dal governo russo il 21 settembre scorso. La decisione è stata giustificata con la necessità di «stabilizzare il mercato domestico» in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno e in ragione dell’aumento a livelli record dei prezzi interni dei carburanti che ha gravato in particolar modo sugli agricoltori. A incidere su una simile dinamica è stata anche la svalutazione del rublo che ha reso particolarmente attraenti le vendite al di fuori del Paese, pari a circa 800.000 bbl/g per il gasolio (40% della produzione domestica) e 100.000 bbl/g per la benzina (10%)⁴.

Tuttavia, a detta dei più, la decisione di Mosca va inquadrata soprattutto come un ulteriore tentativo di far pressione sui governi occidentali utilizzando la leva delle risorse energetiche. La sottrazione al mercato di un simile quantitativo di gasolio ha infatti avuto un impatto immediato – benché temporalmente circoscritto – sui prezzi del prodotto europeo, con i futures ICE che, a valle dell’annuncio da parte del Cremlino, hanno superato i 1.000 dollari per tonnellata, portandosi ai livelli registrati ad inizio anno in prossimità dell’avvio dell’embargo europeo. Una reazione che non sorprende, considerando le criticità in cui versa da tempo la raffinazione europea e di conseguenza il mercato dei prodotti del Continente, su cui l’avvio degli embarghi verso la Russia ha introdotto un ulteriore elemento di vulnerabilità. 

La natura geopolitica di questa misura è emersa poi chiaramente con l’improvvisa e quasi completa eliminazione – dopo appena due settimane dalla sua applicazione – del divieto di export del gasolio⁵, prodotto traino delle esportazioni energetiche del paese. Breve ma intensa, la manovra ha quindi dimostrato quanto siano scoperti i nervi del mercato e quanto sia delicato il meccanismo di azione-reazione in atto.

Forze opposte in gioco

In conclusione, la politica di tagli continui alla produzione attuata dall’Opec Plus nell’ultimo anno ha contribuito in più occasioni a far alzare i prezzi del greggio, ma anche qualche sopracciglio, poiché sembra creare una nuova dinamica di mercato in cui la riduzione volontaria dell’offerta è in grado di sostenere il barile anche in un contesto di incertezza macroeconomica persistente. Storicamente, invece, è sempre valso l’assunto secondo cui un rally dei prezzi può avere gambe forti solo se si basa su una robusta crescita della domanda di petrolio. Su questo punto, peraltro, le opinioni degli attori principali del mercato divergono ampiamente, tanto per il lungo termine (ipotesi di picco) quanto per il breve. Secondo le previsioni Opec per il 2024, la domanda crescerà di 2,2 mil bbl/g, dopo un incremento di 2,4 milioni nell’anno in corso⁶, nonostante le incertezze della Cina e i timori di recessione nell’area OCSE. Visioni più pessimistiche, come quelle dell’Aie e di Energy Intelligence, stimano invece una crescita di circa 1 mil. bbl/g per l’anno prossimo. In entrambi i casi, è molto probabile che l’Opec Plus continui a dare prova di grande coesione nel gestire il mercato, con un ruolo centrale dello swing producer saudita: se la domanda dovesse crescere oltre le attese, Riad potrebbe annullare il suo attuale taglio volontario; per contro, un suo calo più accentuato comporterà quasi certamente il mantenimento dei tagli anche nel 2024. Su un quadro dei fondamentali di mercato spontaneamente o forzatamente in tenuta, si innestano variabili – andamento dell’economia mondiale e di quella cinese in particolare, effetti prolungati della guerra sul mercato dei prodotti, tensioni geopolitiche di diversa natura e gravità- in grado di cambiare il corso delle cose qualora i contorni passino da sfumati a nitidi. Ne è un chiaro esempio l’improvviso attacco sferrato il 7 ottobre scorso da Hamas – il gruppo militante palestinese sostenuto dall’Iran, e non solo, che controlla la Striscia di Gaza – verso Israele; il riverbero sulle quotazioni è stato immediato, nonostante non vi sia (al momento) un impatto diretto sull’offerta, non essendo lo Stato ebraico un produttore rilevante di petrolio. Quel che il mercato sta scontando – con il barile che ha superato nuovamente quota 90 dopo essere sceso sotto tale soglia nei primi giorni del mese – è, piuttosto, il ruolo svolto in particolare dall’Iran e il potenziale impatto che ne può derivare sulle esportazioni di petrolio del Paese, recentemente risalite ai massimi dal 2018 grazie all’approccio più morbido degli Stati Uniti verso le sanzioni relative al nucleare. Questa drammatica situazione potrebbe arrivare a deteriorare nuovamente i rapporti tra USA e Iran, dato che i primi sono storici sostenitori di Israele. Per ora, siamo nella fase delle congetture ma risulta chiaro come la potenziale estensione del conflitto nell’area medio-orientale o l’eventuale ritorno ad un atteggiamento più rigido sulle sanzioni verso l’Iran possano minare gli equilibri di un’area chiave per la produzione petrolifera mondiale.

In un contesto di totale incertezza e di aspettative che mutano anche in brevi lassi di tempo, l’unico punto fermo sembra essere la persistente coesistenza di forze che agiranno sui prezzi in direzioni opposte anche nei mesi a venire, secondo il meccanismo tipico del tiro alla fune.

 


 

1 L’AIE stima un a crescita di 1,6 mil. bbl/g su base annua, rispetto ad una crescita totale di 2,2 mil. bbl/g (Oil Market Report, settembre 2023).

2 1 milione da parte dell’Arabia Saudita e 300.000 bbl/g da parte della Russia.

3 Non riguarda i paesi dell’Unione economica eurasiatica, organizzazione economica di stati che appartenevano all’Unione Sovietica e che include Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan. Sono inoltre previste alcune eccezioni per le esportazioni regolate da accordi intergovernativi e da aiuti umanitari.

4 PIW, 21 settembre 2023.

5 È stato mantenuto temporaneamente il divieto di export di benzina.

6 Sostanzialmente allineata a quella dell’AIE (Oil Market Report, settembre 2023).

7 Le esportazioni di greggio iraniano sono aumentate negli ultimi anni, grazie all’approccio più morbido verso le sanzioni adottato dagli Stati Uniti: la produzione di greggio supera i 3 mil. bbl/g e le esportazioni i 2 mil. bbl/g – i livelli più alti da quando l’amministrazione Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano nel 2018.